T R I C O L O R E Agenzia Stampa Risorgimento e cattolicesimo liberale IL "PRIMATO" DEGLI ITALIANI Pubblichiamo ampi stralci dell'editoriale del numero in uscita della rivista dei gesuiti italiani "La Civiltà Cattolica". L'articolo approfondisce alcuni aspetti del dibattito storico in corso in occasione del cento-cinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia.
Parte della storiografia moderna, soprattutto quella di ma-trice "laicista", spesso dimentica, o tende a misconoscere, che il Risorgimento, inteso come movimento di idee, è na-to e cresciuto all'interno del pensiero politico cattolico e da questo ha ricevuto il suo primo programma di azione. Insomma, accanto a Mazzini e prima ancora di Cavour - politico intelligente, ma mosso da ideali e da intenti politici diversi da quelli fatti propri dai cattolici - ci sono stati An-tonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, che pensarono al nuo-vo assetto politico e sociale della penisola in termini "italiani", e che videro nel confluire di culture e tradizioni locali diverse, amalgamate dallo stesso cemento della fede cattolica, le condizioni per la nascita di uno Stato confede-rale. Alle radici del cattolicesimo "risorgimentale", è stato giu-stamente notato, stavano impulsi culturali e religiosi di na-tura alquanto varia, ma in certa misura confluenti nell'alve-o del cosiddetto cattolicesimo liberale, così definito pole-micamente dai cattolici "integrali e senza aggettivi". Il cattolicesimo liberale, nonostante le censure dell'autorità ecclesiastica, lasciò nella trama della storia italiana una
Don Vincenzo Gioberti
traccia considerevole e duratura in almeno due direzioni: in primo luogo, per avere affrontato il tema im-prorogabile delle condizioni religiose di un nuovo ordine politico; in secondo luogo per aver collocato il rapporto tra cattolicesimo e nazione nella cornice di una separazione istituzionale tra Chiesa e Stato. Pur adottando tale punto di vista, i cattolici liberali italiani non intendevano separare lo Stato moderno (o meglio liberale) dalla religione cattolica, in quanto consideravano quest'ultima come connotato essenziale dell'identità nazionale. Lo stesso Rosmini - mentre si dichiarava contrario alla norma contenuta nello Sta-tuto Albertino che dichiarava la religione cattolica come religione di Stato - chiedeva che lo Statuto rico-noscesse "l'Italia per una nazione cattolica", facendo discendere da tale principio "necessarie garanzie di libertà per la religione della nazione" e, conseguentemente, restrizioni per il diritto dei cittadini. Per altro verso il cattolicesimo liberale prendeva atto che lo spazio politico, in uno Stato moderno e plu-ralista, era per sua natura aperto alla competizione sul terreno dei valori e degli interessi da tutelare e che, quindi, era improrogabile compito della Chiesa e delle sue associazioni attrezzarsi per far valere i propri valori e il suo particolare punto di vista sulle questioni di sua pertinenza sollevate all'interno dello spazio pubblico. In ogni caso la cultura cattolica liberale di quegli anni era pervasa dall'idea che lo Stato nazionale e libe-rale potesse continuare a essere permeato dai valori cristiani, e che nello spazio pubblico i cattolici avreb-bero potuto avere un ruolo importante.
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Cosa che anni dopo avvenne con la nascita del cattoli-cesimo politico. Il doppio obiettivo che i cattolici liberali intendevano cogliere era di impedire una radicalizzazione ideologica della classe politica in senso anticlericale e di scongiu-rarne in tutti i modi gli effetti, giudicati dannosi sul pia-no religioso, di una permanente ostilità o conflittualità della Chiesa nei confronti dello Stato unitario. Il sacerdote piemontese Vincenzo Gioberti fu uno dei primi a pensare la "nazione" italiana "una di lingua, di lettere, di religione, di genio nazionale, di pensiero scientifico, di costume cittadino, di accordo pubblico e privato tra i vari Stati e abitanti che la compongo-no" (Del primato morale e civile degli italiani). E questo, secondo Gioberti, sarebbe stato possibile sol-tanto "attraverso un'alleanza stabile e perpetua" dei vari Stati della penisola, con il Papa come "presidente natu-rale e perpetuo" di questa "confederazione di prìncipi e di popoli italiani". O meglio, continua il sacerdote pie-montese, "come doge e gonfalone della confederazione italiana, arbitro paterno e pacificatore di Europa, institu-
tore e incivilitore del mondo, padre spirituale del gene-
Don Antonio Rosmini
Tale raggiunta unità tra le "genti italiche" avrebbe così restituito all'Italia il "primato morale e civile" che essa in passato aveva avuto su tutte le nazioni e civiltà dell'Occidente cristiano. "Italiani - scriveva Gio-berti - voi avete il dominio spirituale del mondo e sta in vostra mano il recuperarlo". Tale "primato" degli italiani, scrive Giorgio Rumi, era per Gioberti un fatto soprattutto culturale, anzi spirituale, prima ancora che politico (cfr. Gioberti, Bologna, il Mulino, 1999). Il vero pericolo per l'Italia, secondo Gioberti, stava infatti non tanto nell'egemonia austriaca o nell'impo-tenza degli antichi Stati regionali, quanto nello snaturamento dell'italianità, vale a dire di "un'Italia imbel-le, schiava e scimmia" degli altri Paesi e delle altre culture nazionali, in particolare della cultura francese e della filosofia tedesca. Essa invece, in quanto erede di Roma, avrebbe dovuto avere un ruolo direttivo nella formazione di una confederazione europea di Stati. Tali teorie, sebbene piuttosto astratte e un poco fantasiose, in quegli anni di intensa trasformazione politi-ca e sociale riscaldarono la mente e il cuore di molti italiani sinceramente interessati al "riscatto" della nazione, e ciò prima ancora che i Savoia sposassero pienamente la causa unitaria, indirizzandola secondo i propri interessi particolari. L'unificazione, come sappiamo, avvenne poi in altro modo e secondo altri ideali, e ciò condusse a forti lacerazioni nel Paese "reale", che pesarono molto sulla formazione di uno Stato nazionale realmente uni-tario, e che furono definitivamente sanate soltanto quando i cattolici - dopo la lunga e travagliata vicenda del Non expedit - rientrarono a pieno titolo nella vita politica nazionale.
(Osservatore Romano, 5 giugno 2010)
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