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Donne d'Israele
Recensione a “Quattro madri” di Shifra Horn I melograni, che in questa stagione si vendono per le strade dei villaggi del nord e sui banchi dei mercati di Gerusalemme, sono da sempre i simboli più illuminanti di Israele: racchiudono insieme, nella polpa carnosa, centinaia di grani rossi, portatori di nuove vite e nuove verità, tutte diverse. Nel romanzo di Shifra Horn a germinare esistenze, destini e generazioni sono i corpi delle donne che, come una scorza, avvolgono il fluire dell'esistenza del giovane stato ebraico. "Quattro madri", appena pubblicato in Italia da Fazi, racconta un universo tutto al femminile, denso di afrori, sensazioni inebrianti e dolori che straziano, nel quale, all'interno della stessa famiglia si incrociano vicende individuali che hanno accompagnato i grandi sconvolgimenti della Terra Promessa, dalla presa di coscienza dell'identità sionista, fino quasi ai giorni nostri. In un intreccio narrativo visionario e sensualissimo, talvolta persino eccessivo, che sembrerebbe avvicinare la scrittrice al mondo latinoamericano della Allende e di Marquez, si svela invece, pagina dopo pagina, una dimensione intimamente ebraica, intrecciata di tradizioni e ritualismi orientali, che sconfinano in esiti surreali di grande suggestione. A legare le protagoniste, raccontate dall'ultima loro discendente, Amalya, è infatti una sorta di maledizione, che le condanna ad essere abbandonate dai mariti subito dopo la nascita di una figlia femmina. Fra una pergamena di divorzio e l'altra, dopo sparizioni senza una parola, fra un uomo che muore e un altro che arriva dal mare, il punto fermo resta la casa matriarcale. Tutte, prima o dopo, vi tornano, nel quartiere ebraico di Gerusalemme, fra le stanze con i pavimenti di pietra e il cortile chiuso tra le mura, con un gelso gigantesco che nemmeno i turchi affamati a caccia di legna, incalzati dagli inglesi nel 1917, sono riusciti ad abbattere. Ma la vera casa è la città, che nelle pagine della Horn rivive attraverso i suoi odori di menta, di escrementi di cavallo, di pane appena cotto, di rose; viene rievocata attraverso i vicoli che riecheggiano di malignità e dicerie; risuona del brusio avvolgente del suk che si dilata negli spazi scuri dei negozi, da cui gli sguardi dei bottegai vanno ad appoggiarsi viscidi sulle fattezze delle donne che passano. Gerusalemme, cuore di Israele, è la terra stessa, tomba e, insieme, ventre morbido che germoglia. La si può lasciare, ma il suo richiamo è, infine, sempre il più forte. Così avviene quando la bellissima Sarah si imbarca per trasferirsi nella ricca comunità ebraica di Salonicco con il marito; vi resta qualche anno, ma poi, con i suoi bambini, abbandona l'uomo che non la desidera più. Riprende la rotta per Samos, Patmos, Kos, Rodos, Mersin e Alessandretta ("nomi che riecheggiavano come una tenera e suadente melodia d'amore"), fino al porto di Jaffa, e poi, con la vecchia ferrovia, su fino alle montagne della città di Davide, dove l'aspettano le prove più umilianti, Lo stesso è per sua figlia, Pnina Matzal, dotata del dono strarodinario di comunicare in più lingue, che da ragazzina va negli Stati Uniti entusiasta del mondo che le si apre davanti e di tutto quello che potrà imparare. Poi però finisce per riapprodare sulle banchine sotto le mura arabe da cui era partita. Ripercorre i vecchi binari, e, da interprete, mette il suo tesoro di conoscenze al servizio della Babele di etnie e religioni che affollano il suo paese e che il protettorato britannico stava cercando, invano, di dominare. Negli anni, quel groviglio di diversità e di promiscuità culturali non ha fatto che crescere, per la sovrapposizione continua di alyot verso la terra promessa, da Europa, Africa, India, Yemen, dai paesi del Golfo Persico e della Le protagoniste di "Quattro madri", tutte sabra vedono i loro destini intrecciarsi con quelli di invasori, turisti, pellegrini, e soprattutto con gli olim, gli immigrati ebrei, sempre più numerosi in una patria che cresce. Anche la loro Gerusalemme, così onirica e passionale, attraversata da superstizioni, presagi, stelle comete e sempre attanagliata dalla paura di un nuovo pogrom, mostra le tracce di quelle ondate. La sua espansione urbana resta sullo sfondo delle vicende, che, lungo le generazioni, si dipanano dal nucleo della città vecchia, ai quartieri ottocenteschi di Nahalat Ahim e Rehavya, agli edifici eleganti dell'American Colony e del monte Scopus, fino alla foresta di Fra quelle vie, ora strette e tortuose, ora alberate e inondate di sole, ora sbarrate dai check point durante l'occupazione giordana, si sviluppa una narrazione lontanissima da qualsiasi retorica, che vive di particolari, di oggetti e di sensazioni, ma che riesce, in filigrana, a fare percepire tutte le tensioni Nella quotidianità delle protagoniste la convivenza con gli arabi è un dato di fatto. Quando, sopraffatte dalla fatica o dal dolore delle loro difficili esistenze, non hanno voglia di fare da mangiare, comprano dai palestinesi focacce riempite di formaggio e olive, da dare ai bambini. E proprio la fame della figlia neonata costringe Pnina Matzal, magrissima e impegnata in ufficio, ad affidarla a una balia di un sobborgo musulmano, alla quale resterà unita da un legame istintivo e incancellabile. Questo non impedisce alla Horn di rendere palpabile il terrore degli ebrei minacciati dalle rivolte arabe, barricati in casa e avvolti nel silenzio, né di evocare le sassaiole, tragiche stazioni di un dramma non ancora concluso. Una pietra lanciata da un ragazzino, destinata a un giovane di una yeshivà che si avviava al Muro Occidentale, finisce per fracassare il cranio dell'amante americano di Sarah ormai anziana, straziando Ma le lacerazioni di Israele non sono solo etniche e politiche: dividono gli stessi semi rossi racchiusi nella scorza dei rimonim. Nel romanzo (pubblicato in ebraico nel 1996, a pochi mesi dall'assassinio di Yitzhak Rabin), la dicotomia fra sefarditi e aschenaziti resta in secondo piano, per lasciare spazio piuttosto a quella fra il mondo laico dell'egualitarismo dei diritti e quello religioso, sempre più emergente, soprattutto a Gerusalemme. Amalya, la narratrice, nella sua sofferta ricerca di quel padre di cui nessuno in famiglia ha mai voluto parlare, arriva ad intuire che la sua esistenza è frutto di una violenza subita da sua madre, ma - e lo capisce soltanto alla fine - non da un arabo: da studenti di una scuola rabbinica ultraortodossa, ubriachi dopo la festa di Purim. Questa scoperta, che va ad aggiungersi per lei all'abbandono del marito dopo la nascita di suo figlio, non blocca il suo desiderio viscerale di alimentare il ciclo dell'esistenza e delle generazioni, nello straordinario caleidoscopio del melting pot israeliano. Se Gerusalemme - per usare le parole di Yehoshua - è un città senza inconscio, che esterna tutto e fa divampare le tensioni, ancor più lo è quella evocata dalle parole di Shifra Horn: dopo poche pause che amplificano le emozioni, il racconto riprende a scorrere travolgente, sul ritmo di avvenimenti in cui la vitalità prende il sopravvento su ogni logica e ogni morale. Amalya è consapevole che gli uomini sono accidenti temporanei, che causano sofferenza ma donano nuove vite. Va a comprare un gelso maschio per il cortile della casa di famiglia perchè un'altra vecchia pianta che lo ombreggiava possa ancora dare more. Poi ricomincia a cullarsi nel grande letto d'ottone che era stato di sua bisnonna e di sua madre: il suo destino e il suo corpo sono di nuovo aperti, come le bucce dei melograni che germoglieranno dopo l'inverno. E così come è tragicamente aperto il futuro di

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